«Il nostro vino mette allegria, è fatto apposta per la convivialità». Luca Bergamaschi conduce insieme al padre Demetrio e allo zio Maurizio, le Cantine Bergamaschi, tra le poche nell’alta Val di Taro che custodiscono il “segreto” della Fortana, il rosso frizzante con la gradazione alcolica di una birra (circa 6 gradi), che in tanti considerano una sorta di elisir del buonumore. La pensava così anche Giovannino Guareschi, il quale non solo la infilava in qualche ridanciano brindisi tra Peppone e Don Camillo, ma si era messo anche produrla in proprio, disegnando personalmente persino l’etichetta. Guareschi era nato (nel 1908) a Fontanelle di Roccabianca, una manciata di chilometri dall’azienda dei fratelli Bergamaschi, a Samboseto, l’ultima piccola frazione orientale di Busseto, borgo Bandiera Arancione del Touring Club Italiano, famoso per aver dato i natali a Giuseppe Verdi (la casa in cui nacque è a soli 6 chilometri dagli edifici delle Cantine Bergamaschi), per le sue bellezze architettoniche e per i suoi tesori enogastronomici.
È proprio dai sapori della cucina emiliana e dalle donne che ne conoscono l’arte che parte la storia ultracentenaria delle Cantine Bergamaschi e della loro Fortana. «Il mio bisnonno Demetrio – racconta Luca Bergamaschi – era un allevatore, ma aveva una moglie eccezionale in cucina, così nel 1909 decise di trasformare l’arte della mia bisnonna in qualcosa di redditizio e le “regalò” una trattoria a Samboseto, locale che esiste tuttora, anche se non è più gestito dalla mia famiglia. Ai tempi le trattorie usavano anche prepararsi in proprio il vino, acquistavano l’uva dai produttori della zona e producevano il vino che poi servivano ai clienti. Il mio bisnonno doveva essere proprio bravo anche come vinaio, visto che in poco tempo venivano a comprare il suo vino anche gli altri osti della zona. È così che è iniziata l’avventura del vino nella mia famiglia».
Un’avventura che ha poi una tappa fondamentale negli anni 50, quando arriva al timone il figlio di Demetrio, Giuseppe Bergamaschi. «Mio nonno – ricorda Luca Bergamaschi – era un grande appassionato di vino, ma anche della nostra terra. Tra le varietà minori che si producevano c’era anche la Fortana, un vitigno autoctono, la cui origine pare sia stata rintracciata in Borgogna. Ci sono testimonianze della sua presenza in Val di Taro già nel 1400. In quel ceppo originario sono stati fatti vari innesti nei secoli per diventare quello che conosciamo ora. E che in pratica mio nonno ha salvato dall’estinzione». Come ogni prodotto della terra, anche la vite ha una connessione indissolubile con le pratiche umane e da queste parti, prima che arrivasse la viticoltura industriale e le coltivazioni intensive, i vitigni erano colture “di confine”, nel senso che i filari venivano posizionati sui confini dei vari appezzamenti per delimitarli, una sorta insomma di lunghissima staccionata naturale. «Con l’arrivo dei grandi mezzi meccanici sui campi negli anni 50, dove la coltivazione, soprattutto del pomodoro, stava diventando intensiva, i vitigni in quelle posizioni erano d’intralcio e venivano abbattuti». Tra di loro c’era anche quella singolare uva che attecchiva così bene su quel terreno argilloso, capace di diventare un nettare spumeggiante, la cui gradazione alcolica era quasi impercettibile, al contrario della corposità così intensa e delle tante sfumature di gusto, a partire da quelle rinfrescanti dei frutti rossi. La Fortana appunto, un vino che da sempre faceva coppia fissa a tavola con il salame, il culatello, la spalla cotta, delizie tipiche di queste zone (un matrimonio di sapori che ammirava persino Gualtiero Marchesi, e non è certo un caso se la sua scuola internazionale di cucina, sia a Colorno, neanche 30 chilometri da Samboseto). Perdere la Fortana significava perdere anche una parte di quei sapori così familiari, significava perdere una parte importante di storia di queste terre. «Mio nonno si mise in testa di salvare la Fortana e convinse altri vignaioli a farlo. Per fortuna, altrimenti forse adesso non ne staremmo a parlare».
L’altra svolta per i Bergamaschi arrivò negli anni 70, quando oltre che alla vinificazione, decisero che era il momento di coltivare in proprio l’uva. «Ora, dopo cinquant’anni, siamo arrivati ad avere 5 ettari di terreni coltivati a Fortana. Riusciamo a produrne circa 20.000 bottiglie l’anno, anche se le richieste che arrivano sono molte di più». Già, perché l’esplosivo rosso frizzante di Samboseto, da segreto ben custodito tra gli osti della Bassa Parmense è diventato un oggetto di culto per molti amanti del vino. «Abbiamo estimatori in Francia, Germania, Svizzera e praticamente in tutta Italia, da Bolzano alla Sicilia. Abbiamo clienti a Milano, Roma, Napoli. Di quello che produciamo non ne resta mai in magazzino. Anzi, ce le ordinano con un anno di anticipo». Ma di aumentare la produzione e snaturare, magari rinunciando al metodo biologico, non se ne parla. Anche se quest’uva ha nel nome uno dei suoi pregi, la forza per resistere al clima rigido d’inverno e torrido d’estate, è probabile che non resisterebbe a una coltivazione intensiva. «Quella della Fortana è una produzione di nicchia – sottolinea Luca Bergamaschi – e tale deve restare. La vite ha i suoi tempi, stravolgere la sua coltivazione significherebbe tradire la nostra filosofia che in fondo è la stessa da sempre: prendere quello che la natura ci dà».
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Testo: Luca Tavecchio - Foto: Cantine Bergamaschi