articolo di Fabrizio Milanesi
Colture e culture fino a pochi decenni fa avevano solo una vocale e poco più a distinguerli. Poi è successo che in meno di un secolo il cibo si è allontanato sempre di più dalla terra, diventando un prodotto come un altro, da moltiplicare, inscatolare, plastificare e spedire chissà dove secondo le logiche di un mercato molto poco vicino alle persone.
Per fortuna stanno emergendo esperienze che cercano di andare in direzione contraria (e ostinata direbbe qualcuno), tentando di riavvicinare il cibo alla terra e alla cultura delle persone che ne beneficiano.
A Gressoney-Saint-Jean, nello splendido borgo valdostano Bandiera Arancione della valle del Lys, ai piedi del Monte Rosa, c’è un progetto che vale la pena raccontare, una storia animata da giovani protagonisti e molte idee che stanno dando finalmente i frutti sperati.
“Paysage à Manger nasce nel 2014 a Fontainemore quasi per gioco”. Federico Chierico si prende un po’ di tempo in queste giornate di clausura forzata per raccontarci la sua storia e quella di una scommessa vinta.
“Al tempo lavoravo nel settore turistico e avevo iniziato da alcuni anni a coltivare la passione per l'agricoltura, che arriva dalla mia famiglia, e per le autoproduzioni. Proprio verso il 2014 avevo incontrato il mondo delle varietà antiche e tradizionali, che mi aveva così affascinato da convincere me e altri tre amici a provare a dare vita ad un progetto hobbystico legato al recupero delle varietà tradizionali di patate alpine”.
In questa avventura alpina chi sono i tuoi compagni di viaggio?
“L'azienda è nata grazie alla passione, al lavoro e alla tenacia di Rita Gors, conduttrice dell'agriturismo Le Soleil e dell'azienda zootecnica a Coumarial, vicino Fontainemore, oltre all'affezione e attaccamento al progetto di Emanuele Panza, che di mestiere fa invece il commercialista”.
Nel mondo dei Masterchef e dello storytelling della cucina sui media, la patata non è certo un superfood, non è l’avocado, non è un pesce raro e nemmeno una spezia esotica… perché avete messo al centro del vostro percorso proprio la patata?
“Siamo partiti con le patate perché è una coltura che dà relativamente meno lavoro nel periodo estivo, in cui eravamo tutti molto occupati con altre attività. Fin dal primo anno ci siamo resi conto che questa attività sarebbe potuta crescere perché l'attenzione a questo tipo di progetti e prodotti era altissima da parte soprattutto di chi questi territori li frequenta da ospite, ma non solo”.
Quando avete cambiato marcia? Quando avete capito che un’idea brillante poteva diventare una impresa?
“Determinante per la crescita e lo sviluppo di Paysage à Manger è stato l'ingresso nella squadra nel 2016 di Federico Rial, gressonaro di nascita e legatissimo al territorio. Il progetto si spostò dunque da Fontainemore a Gressoney-Saint-Jean dove proprio nel 2016 decidemmo di affiancare alla cultura delle patate anche l'orticoltura sempre seguendo la stessa filosofia di ricerca e valorizzazione delle vecchie varietà.
Sempre nel 2016 abbiamo partecipato per l'azienda a RestartAlp, un campus della Fondazione Edoardo Garrone che seleziona e implementa 15 startapp innovative in ambito alpino. Questa esperienza ci ha permesso di crescere nella gestione aziendale e nello sviluppo dell'impresa”.
Federico Chierico e Federico Rial
Oggi come si presenta Paysage à manger?
“Nel 2017 e 2018 l'azienda è maturata e si è strutturata arrivando oggi a coltivare circa 15000 metri quadrati di patate e 3500 metri di orto. Il cuore dell'azienda e la grossa parte dei campi è situata a Gressoney Saint Jean dove da fine giugno ai Santi vendiamo i prodotti del nostro lavoro direttamente nell'orto a Zer Miele”.
Avete stretto relazioni più strette con altri produttori sul territorio? Come si dice, riuscite a “fare rete”?
"Proprio nell’orto a Zer Miele condividiamo lo spazio con aziende piccole e medie che credono e perseguono valori di qualità, genuinità e dignità del ruolo di produttore all'interno della comunità. Samstag Märt è il nome di questo nuovissimo progetto, nato nel 2019 a cui teniamo moltissimo”.
Riflettori sulla protagonista allora, parliamo delle vostre patate!
“Oggi coltiviamo 65 varietà di patate e circa 120 fra ortaggi e legumi. Siamo convinti che la patata, benché coltivata nelle Alpi solo da un secolo e mezzo o poco più, sia uno dei prodotti simbolo dell'agricoltura alpina. Inoltre è sì stata considerata un prodotto povero, ma ha anche sempre goduto di una grande considerazione a livello gastronomico, essendo così versatile ed effettivamente buonissima.
La patata ha portato una grande rivoluzione alimentare e gastronomica sulle Alpi e non solo. I contadini del passato, come per tutte le altre specie botaniche coltivate per mangiare, hanno operato una selezione di varietà adatte a luoghi, climi e modi di mangiare lasciandoci in eredità quel grande patrimonio culturale e gastronomico che sono appunto le varietà antiche e tradizionali che noi con passione ed il supporto di ProSpecieRara, fondazione svizzera che da 30 anni si occupa di tutela e diffusione delle vecchie varietà, tentiamo di riprodurre e valorizzare”.
In un momento storico dove le merci viaggiano e vengono consumate velocemente hai deciso di scegliere la lentezza e un rapporto quasi intimo con quello che coltivi. Ne è valsa la pena? riuscite a viverne senza soffrire regole commerciali durissime prese magari molto lontano dalla Vallee. Rifaresti la scelta?
“Sì ne è valsa la pena, lo rifarei domattina per altre mille volte, è stata la migliore esperienza professionale della mia vita anche perché condivisa con persone eccezionali capaci di stimolarti e rimettere tutto ogni giorno in gioco. Il secondo tema che sollevi è molto complesso ed è difficile rispondere senza essere prolissi”.
Provaci.
“Credo che per un progetto come il nostro il problema non sia rappresentato dal confronto con la concorrenza (che concorrenza non è perché parliamo di mondi diversi) che produce merci a tonnellate vantandosi di una logistica dalla capacità e rapidità quasi inarrivabili per una micro-azienda locale.
I valori assoluti del progetto funzionano e lo rendono sostenibile (a fatica) grazie a due aspetti. Gressoney-Saint-Jean è un luogo dal forte carattere turistico residenziale che garantisce una certa utenza di persone che provengono da contesti urbani in cui il bisogno di rapporto con i produttori è particolarmente sviluppato.
Il secondo aspetto è la comunicazione e la forza della condivisione. Tutti gli agricoltori, ma soprattutto quelli che operano in contesti difficili come la montagna, devono necessariamente essere disposti a raccontare e condividere il proprio lavoro ed i propri prodotti per riuscire comunicare la differenza sostanziale della qualità organolettica, ambientale e sociale fra i loro prodotti e quelli dell'agro-industria, differenza che porta necessariamente anche un costo di produzione differente e quindi un prezzo differente.
È naturale che oltre ad avere voglia e mezzi per comunicare bisogna trovare anche orecchie disposte ad ascoltare. E se l'orticoltura è quasi per la totalità venduta nell'orto, per le patate oltre al mercato privato e delle mostre-mercato che facciamo in autunno, il canale della ristorazione dei qualità sta diventando sempre più determinante”.
Qual è la difficoltà maggiore che state incontrando nello sviluppo di Paysage à Manger?
“La montagna ha poca terra coltivabile si sa, la produzione delle patate senza concimi né pesticidi impone le rotazioni triennali e questo richiede la disponibilità di molta terra di difficile reperibilità. Per questo siamo sempre alla ricerca e al vaglio di nuovi modelli di sviluppo aziendali capaci di svincolarci dal problema dell'accesso alla terra che nelle Alpi Occidentali, vuoi anche a causa dell'iper-frammentazione delle proprietà, rappresenta la vera grande problematica di sviluppo delle imprese agricole.
Altra criticità su cui si può lavorare di certo di più è rappresentata dalla difficoltà per gli agricoltori di tornare ad essere davvero produttori di cibo per la propria comunità. È un percorso lungo e complesso che deve mettere in cammino produttori e consumatori gli uni vero gli altri, per ritrovarsi intorno a nuovi valori di comunità superando logiche commerciali, di comunicazione e marketing”.
L’altra protagonista di questa storia è Gressoney-Saint-Jean. È un luogo di nascita o di arrivo per te.
“Io sono nato a Biella e ho frequentato la montagna da bambino con i nonni da turista. Quando ancora si faceva la villeggiatura, salivo con la nonna a Lignod, in Valle d'Ayas, a metà giugno per scendere pochi giorni prima dell'inizio della scuola. Lì ho sviluppato il mio amore smodato per la montagna, per la bellezza armonica dei villaggi antichi, per la natura forte e dinamica in cui ogni giorno non è mai uguale al precedente. Questo grande amore si è un po' perso negli anni dell'adolescenza, per poi tornare bruscamente dopo i vent'anni. Io in montagna volevo viverci, quotidianamente immerso in ciò che amavo.
Questo legame con quel territorio divenne anche motore di studi e approfondimenti legati al rapporto fra uomo e montagna. Credo che la storia dei Walser sia la sintesi più bella ed essenziale di questo rapporto secolare.
Credo, forse un po' in modo parziale, che Gressoney-Saint-Jean sia uno dei borghi più belli delle Alpi (la località è certificata con la Bandiera Arancione del Touring Club Italiano dal maggio 2017) ed è naturale avere un bel rapporto con la bellezza. A prescindere da questo, guardando un po' più in profondità, se dovessi descrivere la mia intimità con il territorio , ti parlerei di un amore silenzioso, intimo difficile da descrivere, forse infantile per certi versi che mi fa vivere con lo sguardo costantemente all'insù per guardare, scoprire e osservare ogni giorno un nuovo angolo, i legni di una casa, la forma di un villaggio, le tracce dei vecchi campi e dei muretti a secco. Per me queste montagne sono casa, una casa a cui si vuole bene ed in cui ci si sente pienamente a proprio agio".
Gressoney-Saint-Jean, il lago Grover
Tu arrivi da un contesto urbano, la montagna l’hai un po’ scelta. Anche rispetto a quello che sta accadendo in queste settimane (Coronavirus e crollo di molte certezze), credi che da questo shock collettivo ne usciremo cambiati in qualche modo. Pensi o ti auguri che più persone possano fare una scelta come la tua?
"Sono più che convinto che questo periodo di restrizioni e quaresima del capitalismo dia moltissimi spunti su cui riflettere riguardo al nostro modello di sviluppo, ma ho la netta sensazione che poco cambierà una volta passata questa emergenza. Purtroppo le conseguenze economiche di questa situazione saranno importanti e sarebbe interessante, nella crisi intesa come cambiamento, riuscire ad immaginare delle nuove opportunità.
Per il futuro indipendentemente dall'emergenza in corso, sarebbe auspicabile che le comunità di città, di montagna e di pianura, fossero un po' meno dipendenti dall'agroindustria per quanto riguarda la produzione di cibo. Esistono già modelli molto interessanti come ad esempio il CSA (Communited Supported Agricuture) che implicano però un cambio di passo nel rapporto con il cibo, con i contadini e con la terra su cui forse questa emergenza può aiutarci a riflettere.
Per quanto riguarda la mia scelta, io ho provato a fare ciò che desideravo fortissimamente fare. E' stata una scelta personale benché inquadrabile in un più ampio movimento che ha come base concettuale un nuovo approccio verso la terra scaturito certamente dalla disillusione verso le promesse di infinite capacità di crescita e di benessere economico e sociale della società dei consumi".
Per le foto, si ringrazia Federico Chierico
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